foto © Antonio Ria
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Una volta ho scritto che per capire la pittura di Aziz Elhihi occorre vederlo dipingere, assistere allo sprigionarsi della forza creativa che passa dal suo gesto deciso sulla tela. E avevo anche ricordato l'origine nativa di tale forza espressiva: il suo Marocco, la sua origine berbera, mai intaccata dalla sua permanenza ormai quasi ventennale in Svizzera.
In questi ultimi lavori di Aziz paradossalmente vedo da un lato l'approfondimento della sua origine africana e contemporaneamente un dialogo più fitto e intenso con la cultura europea. Prendo emblematicamente due opere, significative fin dal titolo: Afrique e Urlo. La stessa tecnica mista su tela per entrambe; penso la stessa data: la prima è datata 1996; la seconda, non datata, ma è esplicitamente coeva per le medesime tonalità di colore, un rosso infuocato e il nero, con varie sfumature. In queste due opere risalta la radicalità della ricerca di Aziz Elhihi. C'è lo sforzo di interpretare il presente con lo sguardo proteso nel passato: il suo passato africano, il nostro (e ormai anche suo) passato europeo.
Il futuro dell'arte sta, secondo me, in questi sguardi nuovi che, avendo assimilato esperienze così diverse, sanno proiettarsi verso invenzioni nuove. Il passato ci viene ricordato sotto forma di tracce; ma lo sguardo va o tre, oltre i limiti del mondo presente: che politici, sociologi o gente comune non sappiamo immaginare, ma che l'artista ci anticipa. Aziz ci dice che anche lui, ora cittadino svizzero, non può dimenticare la sua Africa, non può rinnegarla. Anzi: la sua ricerca artistica va avanti, si approfondisce, in proporzione alla riscoperta e all'approfondimento delle sue radici, delle sue origini. La spiritualità e la carnalità dell'Africa sono tutte presenti in questa tela carica di suggestioni, di nostalgia: di terrestrità e di sogno D'altra parte, come dicevo, I'Urlo di Aziz riscopre e ripercorre il dramma dell'arte europea: la sua indicibilità, ormai, di fronte alle tragedie Lo spazio della bellezza viene quasi annullato e stemperato in un ammasso di colori, di sensazioni, di «informità».
Alla forza espressiva, all'ispirazione sognante, all'essenzialità delicata dei lavori precedenti, Aziz Elhihi aggiunge in queste ultime opere una nuova simbologia traumatica che si potrebbe far risalire a Munch. Anche per Aziz l'arte infatti tende ad essere sempre più «essenzialmente autobiografica» e a configurarsi come «estetica del vissuto»: «dipingo non quello che vedo ma quello che ho visto», scriveva Edvard Munch nel suo diario Anche il lavoro di Aziz tende alla fine a «cercare le segrete forze della vita».
Questi «coaguli di esperienze» si possono verificare parallelamente anche nelle due tele Senza hto/o (una donna e una maternità) o in Uomo-animale e Forze oscure ll commento sonoro potrebbe essere, contemporaneamente o alternativamente, il suono disarticolato fino allo spasimo della trance dei tamburi dei raduni di Essauira/Mogador o le musiche di Schönberg. Voglio dire che il segno di Aziz ha acquisito in queste ultime opere ancora maggior vigore e maturità. Senza che la sua pittura abbia perso quell'intensità calda, «volutamente infantile», come l'aveva vista l'occhio poetico di Franco Beltrametti. Dietro l'anacronismo delle forme, si radica sempre più un gesto deciso, una sapienza dei toni e dei colori, una potenza espressiva che fanno del segno di Aziz Elhihi una pittura molto personale, immediatamente riconoscibile, forte, vitale.
Antonio Ria